giovedì 7 giugno 2012

Marilyn Monroe, l'amara dolcezza di essere fragili....











Il film Marilyn di Simon Curtis, visto ieri al cinema, mi ha catapultata senza preavviso nella mia fragilità. 


"Tu da che parte stai?" chiede la famosa attrice a Colin Clarke, assistente di Sir Lawrence Olivier sul set de "Il principe e la ballerina" e autore del diario "My week with Marilyn" dal quale è tratto il film. 
Una frase semplice, istintiva, infantile, ma di enorme importanza per afferrare in tutta la sua meravigliosa essenza l'incantevole delicatezza di una donna che chiedeva ininterrottamente aiuto; che implorava approvazione per poi non esserne mai sufficientemente appagata perché il suo vuoto interiore era troppo grande ed ogni abbraccio ottenuto, con le lacrime o col sorriso, non poteva essere altro che una piccola ed instabile conquista. 
La fragilità, che conosco fin troppo bene, se abbinata all'insicurezza e ad un temperamento artistico porta a difficoltà immense sia nella vita di relazione, sia nel rapporto con se stessi  perché non ci si sente mai abbastanza amati; mai abbastanza coccolati; mai abbastanza considerati; mai abbastanza importanti per qualcuno. E si esige molto, dando molto.
Il dolore di Marilyn, condannata alla solitudine dalla sua immensa insicurezza e dal disperato bisogno d'amore e di approvazione, è un dolore senza scampo anche per una Dea come lei. E' una prigione buia che ci spalanca le porte solo quando siamo disposti a capire che felicità, vita, gioia, benessere, allegria sono soltanto nostre.  
Per molto tempo ho avuto momenti in cui mi sono sentita intimamente piccola, incompresa, stanca di vivere. Ero incontentabile? Sempre insoddisfatta come qualcuno ha tentato di farmi credere  basandosi su un'analisi di superficie?  No. 
Si trattava semplicemente  di fare i conti con un'infelicità cronica che aveva origini lontane e che solo io avrei potuto cancellare. Dovevo rimboccarmi le maniche e lavorare duramente per colmare quei vuoti, quei buchi neri, quel veleno autodistruttivo che i miei genitori avevano seminato nel mio piccolo corpicino sin dal primo istante di vita.
Loro non lo sanno, ma mi hanno trivellato l'anima riducendola ad un colabrodo ogni volta che mi hanno lasciata sola senza poter fare domande o senza ricevere spiegazioni; ogni volta che bisticciavano e si picchiavano davanti ai miei occhi terrorizzati ed io piangevo senza riuscire a respirare perché il cuore mi scoppiava nel petto; quando si lasciavano tra urla ed insulti e mi affidavano a tempo indeterminato a una zia, a una nonna, a una colonia, a un collegio; quando mi obbligavano una volta all'anno a cambiare casa, scuola e amici una volta o mi deridevano senza comprensione se mi sorprendevano a succhiare il pollice nascosta in un angolo o dicevo di aver paura del buio. Quante notti ho passato sveglia,  temendo fantasmi, con il divieto di raggiungere il lettone dei miei per non sembrare viziata, capricciosa  e stupida!
La fragilità, pur con storie diverse, nasce lì. In quel tempo bellissimo e breve in cui siamo piccoli angeli candidi caduti dal cielo, che chiedono solo di dare e ricevere amore. Se  si è sfortunati, però, ci si trova inspiegabilmente travolti e coinvolti in situazioni dolorose che non comprendiamo, alle quali non possiamo neppure dare un nome perché la nostra piccola vita non ce lo ha ancora insegnato. E ci arriva in faccia tutto il dolore, tutta la violenza, tutta la crudeltà di adulti egoisti ed immaturi, incuranti dei nostri occhi azzurri    spalancati sul mondo. Se mamma e papà non si amano pensiamo sia colpa nostra. Vorremmo stringerli forte, ma abbiamo braccia troppo piccole per circondarli. Siamo impotenti e i semi dell'autostima e della sicurezza s'incrinano per sempre. 
So che significa essere feriti profondamente e proprio nella parte più esposta, quando si è tanto puri e nudi da non meritare altro che oceani di abbracci, mille baci sulla fronte, coccole, zucchero filato, complicità, sicurezza e montagne di allegria. 
So anche che quelle crepe, quelle voragini restano lì, nel sottofondo di personalità delicate e sensibili senza colmarsi  mai. Si resta feriti in eterno. Possiamo perdonare, ma non possiamo guarire.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, si forma una crosta sottile nel substrato dell'anima che è solo un'apparente cicatrizzazione. Si vive perennemente in una quiete instabile. Nel silenzio prima della tempesta. 
Emotivamente, da bambina, vivevo così. Non c'erano mai giornate, notti o risvegli uguali e bastava una frase mal pronunciata a scatenare l'inferno. Avevo orecchie sempre tese, paure e cuore in allarme. Così, oggi,  un temporale, una grandine, un vento del nord possono far crollare la sottile carta velina che tiene insieme una struttura fragile come un castello di carte, al punto da farmi sentire ancora piccola e bisognosa di un abbraccio, come Marilyn quando chiedeva l'aiuto di Clarke.
Ma attenzione, l'abbraccio di cui hanno bisogno le persone fragili non è un abbraccio qualsiasi e mai e poi mai quello del desiderio, perché immediatamente dopo l'oppio del sesso ci si sentirebbe ancora più soli. 
Nei momenti in cui i fili sono scoperti e si potrebbe andare in corto circuito, l'unico bisogno di una creatura ferita è quello di un amico, di una sorella, della solidarietà disinteressata, di qualcuno che in silenzio ci resti accanto facendoci sapere che sarà sempre e comunque "dalla nostra parte". 
Marilyn, con la sua disperata fame d'amore, nei momenti di crisi  aveva necessità di un solo tipo di abbraccio. Quello che ti fa sentire al sicuro qualsiasi tempesta sopraggiunga. L'unico in grado di lenire le ferite e colmare crepe profonde e doloranti, piaghe mai rimarginate. Quello che ti fa sentire a casa. 
Della Marilyn che il film di Curtis  ci ha voluto mostrare ho colto soprattutto il dolore dolcissimo  e  struggente. Una sofferenza satura di Bellezza, che mi sono portata a casa come una malinconica Saudade. 
In auto, nella notte, ho pianto di solitudine come una bimba smarrita pensando che nonostante il grande e faticoso viaggio dentro me stessa per crescere e guarire, un po' di Norma Jeane Baker vive e vivrà sempre dentro di me.



"Attraversiamo il mondo, senza requie 
e senza redenzione, litighiamo, amiamo, ce ne andiamo
trascinandoci dietro aria di casa, piegatura di vestiti, qualche derrata,
sesso grossolano, partiamo e parcheggiamo, stendiamo di nuovo il nostro odore
casalingo come un lenzuolo noto su un materasso straniero.
Mi addormento, mi sveglio, mi alzo e vado alla finestra, guardo il mare giallo. 
Forse scapperò via da te. 
Se ti svegli e mi domandi dove vai ti dirò: su, presto 
usciamo di qui senza prendere nulla"

(Yitzhak Laor) 





Alle donne vittime di mariti violenti posso solo dire: SALVATEVI!

Penso che ogni giorno dell'anno dovremmo ricordare le donne che subiscono violenza. Da figlia di una donna che di botte ne ha ...