Il
momento è arrivato.
Oggi hai chiuso gli occhi per sempre.
Ieri nel torpore delle cure palliative ogni tanto
alzavi lo sguardo e il nero delle tue pupille riempiva la stanza carico della tua presenza-assenza.
Volevi
esserci per noi, ci provavi, ma il tuo spirito si stava preparando all'ultimo viaggio prendendo il sopravvento sui tuoi desideri, così umani, così veri.
Il
volto scavato, diverso dalle guance tornite e rosee che
conoscevo bene. I capelli radi e una sofferenza inaudita
stampata in faccia, scritta in ogni cellula del tuo corpo divenuto d'un tratto
esile: spalle d'uccellino, dita fragili, denti sottili, occhiaie
scure, gambe scarne. Vedevo il tuo cuore battere sotto pelle. Avrei potuto accarezzarlo.
Sentivo nel respiro affannoso, a tratti interrotto, tutta la fatica dell'esistere sotto il peso di metastasi invadenti e crudeli.
Sapevo
che eri ad un soffio dalla fine. Ti sei agitata. Forse hai percepito la mia presenza e per un attimo hai
alzato la testa dal cuscino in quella tua stanza grande e calda con
le persiane socchiuse che tua figlia aveva abbassato per non farti aggredire dalla vita luminosa che straripava fuori, nel cielo, nel canto degli uccelli, nelle piante fiorite sulla
terrazza.
Per calmarti ti ho accarezzato la fronte. Laura ha fatto altrettanto. Abbiamo tenuto le nostre
mani su di te, unite dal desiderio amorevole di darti pace, conforto. Non ti avrei lasciata mai più. Ti ho baciato la fronte. Ho provato una commozione senza fine.
Prima
di arrivare al San Martino, lungo la strada, avevo visto un gabbiano feroce divorare un piccione su un muretto scrostato. Bianco e nero, contorni nitidi stagliati contro il cielo. Scena
raccapricciante. Presagio di morte, quella morte che tanta paura mi ha
fatto sin da piccolina.
Grazie
a te, ieri, ho finalmente capito che di sorella morte non posso e non devo aver paura. Restare accanto ad una persona cara che sta per lasciare il corpo non lascia disarmati, ma ci avvicina alla parte più intima di noi, al nostro coraggio di esseri umani, al senso profondo della vita.
La tua fragilità mi ha resa forte e mi ha suscitato una tenerezza infinita, insieme al desiderio di proteggerti. Non ho provato vuoto, non ho sentito freddo. Al contrario: la mia anima si è riempita, fino a straripare, di un miele caldo di compassione, dolore, lacrime color dell'ambra.
Sei
stata brava a sopportare la “tua croce”, come dicevi tu. Sei
stata forte a reggere il dolore rinunciando
alla morfina fino a
quando hai potuto.
Sei stata saggia a scegliere l'Hospice per il tuo
ultimo pezzo di strada, consapevole e lucida in ogni istante. Lo so, ogni
tanto avevi paura, ma parlarne ti aiutava ad esorcizzare la prova
estrema.
Qualche giorno fa hai telefonato
per salutarmi perché sentivi di essere arrivata alla fine. "Sto morendo" mi hai detto con un filo di fiato.
Grazie per averlo fatto.
Grazie
per avermi insegnato la bellezza e la serenità nel dolore.
Grazie
per avermi coccolata in molti momenti della vita.
Grazie per avermi detto, l'ultima volta che ci siamo parlate camminando sottobraccio nel corridoio dell'ospedale, che per te ero una seconda figlia.
Tu, per me, una seconda mamma. La sola zia che ho veramente amato.
Grazie per avermi detto, l'ultima volta che ci siamo parlate camminando sottobraccio nel corridoio dell'ospedale, che per te ero una seconda figlia.
Tu, per me, una seconda mamma. La sola zia che ho veramente amato.
Ti porterò nel cuore.
Restami vicina e perdonami per le Morositas.
Te le ho portate troppo tardi e sono rimaste nella mia borsa.
Le conserverò per te.
Te le ho portate troppo tardi e sono rimaste nella mia borsa.
Le conserverò per te.