mercoledì 23 maggio 2012

Zibba & Almalibre: cuore, talento e fantasia

Con la presentazione del quarto album il via al tour nazionale 


Zibba & Almalibre suonano "Anche di lunedì" ed è una fortuna per chi sceglierà di ascoltarli  nelle numerose date del tour dell'ultimo disco “Come il suono dei passi sulla neve” presentato al teatro Gassman di Borgio Verezzi (Savona) il 19 e 20 maggio scorsi.
L'album, che potrei banalmente definire "maturo" facendo torto alla creatività di Zibba & Almalibre, propone un  linguaggio ricercato ma senza spocchia, autentico, poetico, struggente, malinconico. Disco dopo disco, la crescita di Zibba si è fatta spessa, incisiva e sanguigna sia dal punto di vista della narrazione, sia dal punto di vista musicale. Riconoscibile al primo ascolto per le influenze reggae, il levare giocoso, le vivaci suggestioni alla Conte e l'inconfondibile tocco cantautorale genovese, Zibba con l’ultima formazione ha arricchito ulteriormente il sound di sfumature  jazz-blues grazie alla presenza di Stefano Riggi, sax tenore e sax soprano, e di  Stefano Ronchi, giovane chitarrista fino a poco tempo fa "allergico" ai cantautori, che oggi considera l'esperienza Almalibre  la cosa “più blues" che abbia mai vissuto!
"Come il suono dei passi sulla neve" è un percorso delicato nel mondo delle emozioni. Fotografie senza tempo di una Genova che sviene tra le lacrime e il sale; di un palco vuoto in una piazza d'ottobre; di notti maledette nei pressi di Asti Est; di serate a teatro con gli occhi di Nancy; di malinconie dure a morire per chi il suo male (e il suo mare) preferisce portarseli addosso appiccicati stretti per non perdere nemmeno una riga di emozione. In dialetto ligure, infatti,  O Mæ Mâ significa "il mio mare", ma anche "il mio male". Ad accompagnare Zibba in questo bellissimo brano la voce di Vittorio De Scalzi.  
Ho chiesto a Zibba quali siano le canzoni che più gli somigliano, tra le tante scritte sino ad oggi. Temevo di metterlo in difficoltà, perché i figli sono figli, ma la risposta non è mancata: 

"Le canzoni che mi somigliano di più sono quelle in cui mi ritrovo sempre. Una classifica (ma non in ordine d'importanza) potrebbe essere questa: Nelle sere d'inverno, Dove vanno a riposare le api, Soffia Leggero, Salva, Asti Est, Dauntaun, Tutto è casa mia, O mae mà, Aria di levante. Poi se ci ragiono bene tutte.. poi se ci ragiono meglio nessuna... non è facile”.

Ed è proprio il non facile a piacermi di Zibba, che con gli Almalibre non cerca mai soluzioni comode ma si addentra in ardite complessità musicali. L'ultimo album, registrato in un ex forno per la produzione di mattoni a Moie (Ancona), oltre a De Scalzi si avvale della collaborazione di Roy Paci, Eugenio Finardi, Carlot-ta; mentre le voci recitanti sono di:  Adolfo Margiotta, Enzo Paci, Gianluca Fubelli, Alberto Onofrietti, Silvia Giulia Mendola.
Concludo augurando a Zibba che il successo, quello con la "S", arrivi al più presto ma non lo cambi di una virgola perché il suo segreto, al di là del valore compositivo e del piacevole gusto musicale, è nascosto nella profonda capacità di comunicare con il pubblico, di essere autentico e salire sul palco nudo, con il cuore in mano. 
Sergio-Zibba è la dimostrazione che talento, tenacia e fatica premiano chi, sin da giovanissimo, sceglie la difficile strada della musica continuando a crederci e a lottare, anche sbattendoci il muso, perché non si potrebbe essere diversi da così. 
Non a caso, in apertura d'album, al pigro e misogino trombettista jazz Martino Rebowsky, investigatore accidentale uscito dalla penna di Matteo Manforte, una voce fuori campo ammonisce: 
Scommetto che ti stai chiedendo perché nonostante la vita di merda che fai continui lo stesso a suonare...Te lo chiedi tutte le sante sere non è vero?...Te lo dico io perché...Perché hai solo questo. Perché sei nato per fare solo questo. Perché è solo questo che ti fa sentire a colori e che improvvisamente trasforma il casino che è la tua vita in un rumore delicato e lontano …..come il suono dei passi sulla neve.



Formazione: Zibba, Andrea Balestreri, Fabio Biale, Stefano Cecchi, Stefano Ronchi, Stefano Riggi


mercoledì 16 maggio 2012

Sophie Lamour: la rivoluzione di una Pin-Up girl



Burlesque è il termine che definisce un genere di spettacolo parodistico nato nella seconda metà dell' 800 nell'Inghilterra Vittoriana, successivamente esportato negli USA dove riscosse grande successo, soprattutto tra i ceti meno abbienti. Per questo veniva anche chiamato: 
The Poor Man's Follies


Sophie Lamour non ha dubbi. La vera seduzione non è nel fisico più o meno avvenente della performer, ma nella capacità di miscelare ironia e sensualità,  ingredienti senza i quali il Burlesque non potrebbe esistere. La bella Sophie è romana, viene dal teatro e del suo primo amore utilizza strumenti e training per essere un’artista a 360 gradi con tanto di costumi spettacolari, sceneggiature, regia e coreografie.
In attesa di “Burlesque Mon Amour”, il Festival che avrà luogo ad Albissola Marina (Savona) dall’ 1 al 3 giugno 2012 decido d’intervistarla con la curiosità di chi, in poche battute, vorrebbe carpirle i segreti della magica pozione che la rende seducente, sexy e molto vicina alle eterne dive del passato.
La mia missione è far coesistere il lato frivolo e divertente del Burlesque con un cammino interiore che ponga la donna al centro delle sue scelte e protagonista della sua arte. Di solito chi partecipa per la prima volta ai miei seminari è pregiudizialmente condizionata dall’idea che Burlesque sia necessariamente sinonimo di spogliarello. Ma non è così. Burlesque è un’arte sofisticata che richiede eleganza ed ironia, due elementi che non possono prescindere dalla sicurezza e dalla fiducia in se stesse. Il tutto per inventare e creare  performance in cui la protagonista, vestita o no, sia solo e soltanto lei, nella sua essenza, al di là  dei soliti stereotipi e del banale gusto dominante”.
Detta così sembra facile, accessibile al punto da farmi balenare l'idea che anche io, che non so camminare sui tacchi e non possiedo calze a rete, potrei di punto in bianco intraprendere il praticantato del Burlesque riponendo totale fiducia in Sophie, nell’autoironia e in una capacità di seduzione ancora tutta da scoprire.
Ma oltre a questo cosa occorre?
<Avere un rapporto sereno con il proprio corpo nella consapevolezza che tutte le donne sono sexy anche a 40, 50, 60 anni! Inoltre, non bisogna assolutamente  badare al chilo in più o in meno perché quel che conta nel Burlesque  è il linguaggio. Il modo in cui si comunica con il pubblico>.
Parlando con Sophie comprendo che dietro alle ciglia finte, ai boa, ai corsetti e ai reggicalze si cela una visione della vita e della donna confortante ed indulgente, totalmente avulsa dai cliché dominanti perché ciò che più conta è la creatività interiore che diventa linguaggio. Sotto il segno della femminilità, Burlesque diviene così sinonimo di un percorso artistico oserei dire rivoluzionario.
Da cosa è nata la tua passione per il  Burlseque?
<Guardando il film "Moulin Rouge" di Baz Lurman. Una vera folgorazione. Da quel giorno il Burlesque è diventato la mia vita, al punto che ho aperto un blog, un sito web e ho scritto recentemente un libro sulle Pin Up. Per me che venivo da precedenti esperienze artistiche, il percorso è stato semplice perché mi ha consentito di coniugare con facilità la ballerina, l’attrice, la costumista, la truccatrice, la regista: una performer Burlesque deve saper fare bene ognuna di queste cose, anche se poi può scegliere di affidarsi a questo o quel truccatore o costumista>.
Sophie tiene a sottolineare che l'arte della seduzione nel Burlesque non è mai volgare e non nasce necessariamente per compiacere l'uomo.
<Sono le donne le nostre maggiori estimatrici perché apprezzano più dell'uomo il modo in cui sfiliamo i guanti o le calze. Pertanto, le ballerine Burlesque godono di un pubblico  prevalentemente femminile e sono pochi gli uomini che ne colgono la vera essenza. Chi lo fa è perché ha una compagna che lo guida. Per me il Burlesque è eleganza, carattere, ironia, divertimento. Mi piace lo stile vittoriano e creare atmosfere dark fantasy alla Tim Burton. Anche il trucco ha un ruolo importante e nel mio blog cerco di fornire informazioni utili alle aspiranti performer e Pin Up>.  

Per saperne di più: http://www.sophielamour.tk/








mercoledì 9 maggio 2012

Ti amo, dunque ti uccido: in Italia sale in modo preoccupante il numero delle donne uccise dai loro compagni.




101 nel 2006, 107 nel 2007, 112 nel 2008, 119 nel 2009, 120 nel 2010, 137 nel 2011, 55 da gennaio ad oggi. E’ il drammatico bilancio delle donne uccise in Italia negli ultimi sei anni da uomini di ogni età che non hanno accettato l’abbandono o il conflitto con le  loro mogli o fidanzate e hanno esercitato una cieca violenza su chi dicevano di amare. 
Già perché di tutti questi omicidi, che lo scrittore Roberto Saviano ha recentemente definito una “mattanza”, il movente parrebbe essere proprio l’amore malato che sfocia in gelosia, insana passione, patologia.


Il 27 aprile scorso la cronaca nazionale si è occupata di Vanessa Scialfa, 20 anni, di Enna,  strangolata dal convivente di 34 anni dopo un banale litigio. Dopo il delitto, l’uomo ha avvolto il cadavere in un lenzuolo, lo ha caricato in macchina e lo ha gettato da un cavalcavia tra Enna e Caltanisetta. La furia omicida sarebbe scattata perché in un momento di intimità la giovane avrebbe pronunciato il nome dell’ex fidanzato. Ai poliziotti l'assassino, reo confesso,  ha raccontato che durante l’accesa discussione Vanessa si era alzata dal letto con l’intenzione di uscire di casa ma lui, sotto l’effetto di cocaina, aveva  strappato i cavi del lettore dvd e l'ha strangolata.
Questa storia è stata solo una delle tante che si sono consumate nel nostro paese con epiloghi tragici. Alla morte di Vanessa, in questi mesi ne sono seguite altre: punte di un iceberg  sommerso che minaccia donne di ogni età e ceto sociale.

Molte e diffuse violenze restano sommerse e sconosciute perché restano all'interno delle mura domestiche e non vengono denunciate. Nel nostro paese la mentalità patriarcale, specie al sud, determina ancora oggi situazioni di immensa e totale soggezione al maschio-padrone con donne-vittime che a causa dei loro silenzi diventano complici dei loro carnefici. 


Il triste primato di omicidi ci ha visti affibbiare il termine  “Femminicidio” in un documento ufficiale delle Nazioni Unite, in accoppiata con il Messico dove dal 1993 centinaia di donne sono state violentate  e uccise nella  totale indifferenza delle autorità. E altrettante sarebbero scomparse. Donne, ragazze e bambine che prima di essere uccise 

sono state sequestrate, torturate, mutilate, violentate, sottoposte a giochi erotici mortali. I loro corpi, in molti casi, sono stati poi sciolti nell’acido. In Messico e Guatemala, questi crimini vengono archiviati come “danno collaterale del narcotraffico” ma da noi con quale voce pensiamo di archiviare o ignorare un fenomeno crescente e preoccupante?
Dovremmo innanzitutto applicare pene più severe nei confronti di chi usa e abusa del corpo femminile, così come quello dei bambini nel caso dei pedofili. E poi si dovrebbe avviare una massiccia campagna educativa che a partire dall’infanzia sensibilizzi i minori al rispetto dell’altro sesso. 
Penso che il compito primario dell’educazione in famiglia sia insegnare a maschi e femmine il rispetto della donna, a partire dalla madre,  che non può e non deve essere considerata un oggetto, un accessorio, una domestica. Ad una ragazza, poi, dovremmo insegnare che il proprio valore non si misura attraverso la conquista o le attenzioni di un uomo e che le relazioni malate con maschi violenti, crudeli ed irrispettosi vadano abbandonate prima che sia troppo tardi.

Quante botte e soprusi deve sopportare una moglie prima di dire basta?. L'ultima
Le istituzioni, a loro volta, dovrebbero essere presenti sul territorio e aiutare realmente le donne che vogliono uscire da determinate situazioni e sudditanze. Tra le forze dell’ordine, poi, dovrebbero esserci corpi speciali (femminili) preparati e in grado di ascoltare e supportare la donna che chiede aiuto senza lasciarla sola balia del mostro di casa, che prima o poi colpirà anche i figli creando una catena di orrori e traumi senza fine.
Il cammino per la cosiddetta "liberazione" femminile è ancora lungo, ma solo cambiando la testa delle donne potremmo arrivare ad una trasformazione dal basso di una società ancora troppo arretrata, aggressiva ed incivile per un Paese europeo.



giovedì 3 maggio 2012

UN MALEDETTO ADDIO




Adesso che siamo arrivati alla fine piango, ma prima dov'ero?
Il tempo, questo maledetto ticchettio che manca sempre e ci sottrae ai molti doveri del cuore, altro non è che un alibi straordinario per esentarci, salvando la faccia, dai piccoli e grandi doveri di una vita.
Sappiamo che una persona c’è. E’ lì, a portata di mano e proprio per questo diventa sfocata, presente in un caotico sottofondo ma poco illuminata, come quando in una fotografia mettiamo a fuoco solo e soltanto un particolare. 
Le amiamo, quelle persone, però le diamo per scontate come se dovessero rimanere con noi per sempre. Forti di questa fragile convinzione le trascuriamo dimenticando che sono fatte di carne e sangue e come tali delicate, deperibili, a termine.
Non so quante e quante volte avrei potuto percorrere quei pochi chilometri in auto per due chiacchiere,  per un caffè, per farla ridere come ho sempre fatto sin da ragazzina, quando la zia mi ospitava a casa sua al mare e le piaceva sentirmi parlare, raccontare le cose dal mio strampalato punto di vista ed imitare questo o quello.
Non era felice con suo marito, ma quando lui non c’era i suoi e i nostri respiri (miei e di mia cugina) si facevano immediatamente più grandi e scattava una meravigliosa complicità. Siamo state bene insieme io, Laura e Paola, la mia zia preferita che si scocciava perché mangiavo troppa frutta: in Liguria “costa cara” - diceva -  e con me in casa non durava più di due giorni. Però non mi sgridava; cercava piuttosto di comprarne un po’ di più solo per me.
Durante le vacanze estive mi invitava da lei per alleviare mia mamma dalle logoranti preoccupazioni di giovane vedova con due figli piccoli e per stare con  la mia amatissima cugina-sorella, anche lei persa poi per strada tra le disattenzioni della vita e le grandi differenze che ci caratterizzano. Da adulte, abbiamo sempre abitato a poca distanza; ci siamo anche frequentate un bel po’ con le rispettive famiglie e figlie, poi l’essere tanto diverse ha creato un’affettuosa indifferenza. Senza rendercene conto, anno dopo anno,  ci siamo trovate separate da un muro di carta, ma insormontabile, fatto di : ci sentiamo; ci vediamo; ti vengo a trovare…per poi non farlo mai o farlo controvoglia perché coi parenti, si sa, va sempre a finire in noia anche quando ci si vuole bene.
Passa il tempo ed eccoci a fare i conti con la malattia della zia (recidiva devastante di un vecchio tumore dichiarato guarito) l’evento tragico ed inesorabile in cui, volenti o no, si è tutti coinvolti in una solidarietà difficile da gestire fatta di disponibilità ed impotenza, di sentimenti appannati dalla quotidianità che riemergono prepotenti.
 “Se hai bisogno ci sono. Chiamami in qualsiasi momento”. Pensi ininterrottamente alla cosa "giusta" da fare e ogni impegno "inderogabile" fino al giorno prima diventa magicamente derogabile, ma nello stesso istante in cui pronunci quelle frasi nella testa parte la vocina severa che fa sembrare stonato anche il più nobile proposito dell’ultima ora:
Dov’eri prima?; Perché non hai cercato di starle vicina quando era demoralizzata e ti telefonava? Certo la ascoltavi e la consolavi, ma chiusa nel tuo piccolo mondo fatto di mille e mille personalissimi casini ti sembrava che prestarle ascolto fosse la sola cosa che potessi fare!  Poi ti osservi da fuori e non puoi fare altro che biasimarti, tu e la tua solidarietà tardiva e deficiente.
Ed eccomi qui con lacrime di coccodrillo ed inutili sensi di colpa a non dormire pensando a cosa posso fare ora, quando tutti ormai sappiamo che l’unico sollievo di cui godrà avrà l’aspetto di una flebo o di una pastiglia della tanto desiderata terapia del dolore: l’ultima benedizione prima di quell’addio che segnerà la parola fine.

Alle donne vittime di mariti violenti posso solo dire: SALVATEVI!

Penso che ogni giorno dell'anno dovremmo ricordare le donne che subiscono violenza. Da figlia di una donna che di botte ne ha ...