sabato 7 settembre 2019

CHIAMATEMI EVA


Questo breve racconto, finalista al Premio Letterario Nazionale IL SALMASTRO 2019, nasce senza troppe riflessioni, di getto.
Solo più tardi ho capito che questa inspiegabile urgenza aveva radici lontane. Inconsapevolmente ho voluto rendere omaggio ad una coppia di amici dei miei genitori - gente di spettacolo - che da bambina, incontro dopo incontro, vedevo magicamente trasformarsi da uomini a donne senza avere ben chiaro di cosa si trattasse. 
Mamma e papà mi avevano insegnato a non fare domande e ad accettare gli amici per quello che erano. Nel loro caso, persone divertenti, amorevoli, creative, affettuose, le prime ad avermi regalato un anellino d'oro con un'acquamarina che conservo ancora gelosamente. 
Grazie loro e ai miei, ho imparato molto presto a non giudicare le persone dall'aspetto e men che meno dai loro desideri sessuali. Franco, Renè, ovunque voi siate questa è per voi.





I ricordi d’infanzia sono angoscianti, dolorosi. Sento ancora in bocca il gusto di sale delle mie lacrime, quando papà mi sorprendeva a giocare di nascosto con le bambole e mi guardava con disprezzo.
Mi piacevano le scarpette rosse di vernice. Le ammiravo incantato nelle vetrine. Le desideravo.
Mio padre non capiva, mia madre faceva finta di nulla: <<E’ l’età, passerà>>. Ma non passava. Non era una malattia della crescita e non era il capriccio di un bimbo annoiato, era un modo di vedere la vita, più colorato, più indefinito, con pochi muscoli e più poesia.
Mi portavano a calcio per fare di me un maschio sportivo, coraggioso e forte, ma io mi sentivo estraneo a quel mondo di corse e cadute, di ginocchia sbucciate, di scarpe scomode, di sporco d’erba sui calzettoni, di fango e sudore, di pacche sulle spalle, di sputi e parolacce. A me piaceva ballare, cantare, suonare, disegnare. E più di tutto mi piacevano le Barbie di mia sorella Sonia, di 2 anni più grande di me.

Era Carnevale. Avevo quasi 5 anni. Chiesi a mamma di comprarmi un vestito rosa da fatina con tanto di cappello e bacchetta magica. Ero serissimo. Lei mi derise. Chiuso in casa lontano da occhi estranei, quando papà e mamma erano al lavoro, potevo finalmente giocare a modo mio. Sonia, infatti, mi permetteva il travestimento e si divertiva a truccarmi. Era la sola a prendermi per quello che ero: un bambolotto imperfetto, un po’ clown, un po’ femminuccia; il fratello tenero, strano, divertente. Lei mi guardava, io volteggiavo libero nel salotto sognando di danzare nel parco di una grande villa con un bel principe azzurro. Erano momenti spensierati, immediatamente cancellati dall’eterno disagio di sentirmi diverso.

Ieri ho compiuto 20 anni. Ho un corpo e un documento nuovo. Ho raggiunto buona parte dei miei caparbi obiettivi, ma la mia infanzia repressa e ferita mi scorre ancora nelle arterie: a volte è un turbinio veloce; a volte si muove a rallentatore e mi regala ricordi faticosi di giornate turbolente e pensieri disperati. Ero una bimba imprigionata in un corpo sbagliato.
Nei lunghi pomeriggi invernali mi divertivo a cucire maldestramente abiti improvvisati utilizzando stoffe che trovavo in casa. Mi piacevano i cartoni animati con le eroine femminili, volevo ardentemente assomigliare a loro. E mentre la vita dei miei compagni di scuola si svolgeva nelle vie del quartiere tra oratorio, campo da calcio e giochi in giardino, la mia era chiusa e misteriosa perché soltanto a casa mi sentivo al sicuro e protetto dai miei travestimenti.

Mi sarebbe piaciuto portare i capelli lunghi. Ricordo con disgusto il profumo aspro e pungente del dopobarba del salone da barbiere dove mio padre mi portava. <<Ora si che sei un uomo>>, mi diceva con aria beffarda al termine del rito sacrificale della mia amata capigliatura.
A 12 anni ho capito che vivere non poteva essere una continua messa in scena. La ragazza che era in me reclamava spazio, chiedeva di uscire, non poteva più essere ignorata.
Svegliarmi ogni giorno con i pensieri ingabbiati in un corpo che non amavo era un tormento senza fine. Detestavo le mie mani, la mia bocca, l’appariscente pomo d’Adamo sulla linea mediana del collo. Il pene mi creava imbarazzo. Mi sentivo smarrito. Temevo quel corpo che ogni giorno, a dispetto della mia volontà, cambiava un po’: la peluria sotto il mento, sul petto e sulle braccia, la voce bassa, i brufoli. A 15 anni, dopo l’ennesima notte insonne, mi sono fatto coraggio e ho scritto ai miei:

Cari mamma e papà,
Scrivo perché guardandovi negli occhi non riuscirei a dirvi cos’ho nel cuore.
15 anni fa avete messo al mondo una creatura sbagliata. Nel ragazzo che giorno dopo giorno si sta trasformando in un uomo, batte un cuore di fanciulla pieno di poesia, di delicatezza, d’amore.
Sogno di chiamarmi Eva, sogno d’indossare abiti femminili, sogno una voce aggraziata, sogno unghie smaltate, sogno d’innamorarmi, sogno l’abbraccio caldo di un fidanzato.
So che non era nei vostri progetti, ma nemmeno nei miei. Ho provato a non deludervi. Mi sono sforzato di essere il maschio che volevate: ho giocato a calcio, ai giochi violenti della playstation, ho accettato di portare il taglio corto a spazzola gradito a papà. Tutto questo per voi e per rispettare un “genere” non mio. Ora basta. E’ giunto il momento di dirvi che in me, da sempre, dimora e scalpita una ragazza pronta ad uscire da una prigione che si fa ogni giorno più stretta. Vi prego ascoltatela; ascoltatemi. Sto soffrendo, sto soffocando. Se davvero mi amate, aiutatemi.

Per i miei, quella confessione accorata, lucida e definitiva è stata una doccia gelata.
Dopo il primo momento di smarrimento mia madre ha iniziato a guardarmi in modo diverso, con la compassione di chi guarda un parente affetto da una grave e incurabile malattia. Da mio padre, solo silenzio e disprezzo nonostante la mia infanzia e la mia adolescenza fossero trascorse nel disperato tentativo di essere il figlio che lui tanto desiderava e che gli avrebbe fatto brillare gli occhi dalla felicità.
Con riluttanza e goffaggine avevo provato a fare ciò che voleva. Mi sentivo come se avessi recitato per anni un copione scritto da lui, mentre la vera me sopravviveva a stento chiusa in una stanza priva d’aria, maleodorante e buia. L’odore di putrido che mi sentivo addosso mi dava il voltastomaco. Era finalmente arrivato il momento di fare ordine, di mettere le pedine al loro posto. Per non impazzire dovevo per forza far capire ai miei che era indispensabile che la mia anima di ragazza e il mio aspetto esteriore coincidessero. Lo specchio non doveva più essere un nemico.

Sorpreso da tanto coraggio, ho iniziato a raccontare a mamma il desiderio incontenibile di uscire da quel corpo che odiavo. Ero un fiume in piena. Abbracciandola stretta, rosso per la vergogna, con la testa bassa e gli occhi pieni di lacrime, le ho raccontato di quante volte avevo odiato me stesso, di quante volte a scuola mi avevano preso in giro e picchiato chiamandomi frocio, di quante volte mi ero emozionato solo per essermi seduto accanto ad un compagno carino.
A cuore aperto e senza più freni le ho parlato dell’invidia che provavo per mia sorella, per le mie compagne, per i loro capelli, per i loro vestiti, per i fiocchi colorati, per il rimmel, per il lucidalabbra, per il loro profumo. E infine: di quante volte ero andato a dormire augurandomi di svegliarmi finalmente donna. Di quegli anni bui ricordo che pregavo ogni sera chiedendo il miracolo a Dio.

Mentre i miei coetanei si dedicavano ai giochi di sempre, chiuso nella mia stanza davanti al computer, ho iniziato a fare ricerche scoprendo che non ero solo io l’anomalia, lo sbaglio, il tumore. E’ stato allora che ho chiesto a mia madre di accompagnarmi da uno psicologo. Lei, convinta che mi aiutasse a superare il momento di confusione e mi riportasse alla “normalità”, ha accettato. Ero felice. Volevo con tutto me stesso che il dottore mi capisse e fosse mio complice nel dare voce e corpo alla ragazza che portavo nel cuore. Scoprii che la mia anomalia aveva un nome: “disforia di genere”, termine inventato per dare valenza scientifica alle anime incarnate in corpi sbagliati. A me l’unica cosa che interessava era di non dover più essere costretta in una prigione. Volevo nascere, volevo le ali, volevo volare.

Il cammino per raggiungermi l’ho iniziato con la terapia ormonale grazie alla quale i miei lineamenti si sono addolciti, la voce è diventata più femminile, i capelli folti e lucidi, i fianchi arrotondati. Il passo successivo è stato dare spazio al seno, non esagerato, non volgare. Ero un fiore. Ero una giovane donna pronta a sbocciare.
Grazie alla chirurgia ho iniziato a riconoscermi e a indossare abiti e magliette attillate. L’ultimo passaggio, il più difficile e doloroso ma anche il più desiderato, è stato il cambio definitivo di sesso e il riconoscimento legale di una nuova identità.
Da Luca a Eva il cammino è stato lungo, irto e fitto di rovi. Nei documenti bisognerebbe poter scrivere il nostro doloroso iter, per portare sempre con noi l’orgogliosa testimonianza di come siamo arrivati a quel sesso tanto desiderato. Tutti dovrebbero sapere quanto coraggio, quanta fatica e forza d’animo ci costa la Trans-izione.
Il passo più duro per me è stato la conquista della verità perché raccontare agli altri chi fossi realmente era uno scoglio difficile da superare. Dovevo scoprirmi, svelarmi al mondo. La parola Trans evoca sempre pregiudizi, ironia, emarginazione, come se si trattasse di un capriccio.
A furia di farmaci, assistenza psicologica e chirurgia diventiamo le donne e gli uomini che portavamo nel cuore sin dai primi vagiti. Per giungere a quel porto navighiamo a lungo in mare aperto, senza timone, senza bussola e sempre in balìa della tempesta ormonale, sociale, esistenziale.
Provare a trascinare i miei genitori nel mio mondo non è stato facile, ma io non potevo continuare a mentire. Il corpo di Luca non era un corpo: era un involucro, una gabbia stretta, una prigione senza via di fuga. Mi sentivo un alieno. Il momento più bello della mia giornata di adolescente era addormentarmi sperando di non svegliarmi più.

Per 20 anni sono stato Luca, costretto in abiti non miei. Finalmente sono rinata e ho scelto il nome della prima donna sulla terra, il più bello. Chiamatemi così: chiamatemi Eva.
Se penso a quel bambino che correva in casa con le scarpe e gli abiti di mamma per sembrare una principessa, che si appartava a piangere perché non si sentiva capito, che inventava scuse per non andare a scuola dove lo ridicolizzavano, mi viene ancora da piangere. Le ferite profonde bruciano e sono sempre pronte a riaprirsi. Ci vuole tanta forza per diventare ciò che si è.
Gli psicologi hanno cercato di capire i retroscena della mia natura, ma cosa c’era da capire? Per me era tutto chiaro: volevo, dovevo, essere una donna. Pur prigioniera in un corpo maschile, io quella ragazza la vedevo. Era lì, appoggiata al davanzale dei miei occhi che mi sorrideva fiduciosa, che mi aspettava. Allo specchio ne vedevo la luce ed era la mia stella polare, la mia cometa. Lei voleva sbocciare, mi chiedeva il coraggio di aprire un varco e raggiungerla. Era una presenza scomoda, inquietante, seducente, vera. In quell’altalena di emozioni, la trasformazione - o meglio la “correzione” - era diventata urgente e necessaria. 

Il rapporto difficile con la famiglia mi ha sempre fatto sentire sbagliato. Fino a qui, sensi di colpa, inadeguatezza, vergogna hanno costellato ogni istante della mia esistenza. A 12 anni, in un momento di grande sconforto, decisi di farla finita. Mi chiusi in bagno e con una lametta di mio padre provai a tagliarmi i polsi. Non ci riuscii, avevo paura del dolore e mi sentii fallito. Ero arrabbiato con mia madre che non capiva i miei sentimenti, il mio disagio. Mi sentivo sottovalutato, incompreso, deriso. Volevo punirla, volevo che soffrisse. Pensavo: una madre non dovrebbe accogliere il figlio così come viene, con altruismo e senza giudizio? In un mondo di maschi e femmine chi sono quelli che, come me, stanno in mezzo? Hanno diritto alla vita o devono morire?

Il cambiamento, la Trans-izione, non è solo quella che ci porta ad avere un fisico femminile (o maschile nel caso di donne che si sentono uomini) ma passa anche e soprattutto per le piccole gioie quotidiane, per i gesti d’amore come l’accettazione incondizionata da parte di chi dice di volerci bene. Diventare se stesse a 20 anni è un traguardo emozionante, una gioia immensa.
Raggiungersi, a 20 anni, significa rinascere, riconoscersi, ritrovarsi, piacersi, indossare raggiante i primi tacchi rossi di vernice e imparare a camminare, a testa alta, con un incedere nuovo.






Alle donne vittime di mariti violenti posso solo dire: SALVATEVI!

Penso che ogni giorno dell'anno dovremmo ricordare le donne che subiscono violenza. Da figlia di una donna che di botte ne ha ...