In questi lunghi mesi di sofferenza fisica e psicologica una
cosa l’ho capita: nel dolore siamo soli.
Quando il male ti annulla fisico e mente e costringe
il tuo cervello a combattere contro quella sensazione insostenibile che è il
dolore lasciando fuori la vita, nessuno, ma proprio nessuno ti può aiutare. Al
massimo ti possono abbracciare, cucinare per te o accompagnarti dai dottori, ma
finisce lì. E non è una loro mancanza.
Il dolore che annienta la volontà non ammette complici ma
solo spettatori.
Sei tu e solo tu a dover guardare in faccia ciò che succede dentro di te. Sei tu e solo tu a dover rispondere come puoi al tuo corpo che ospita qualcosa che ti si rivolta contro.
Sei tu e solo tu a dover guardare in faccia ciò che succede dentro di te. Sei tu e solo tu a dover rispondere come puoi al tuo corpo che ospita qualcosa che ti si rivolta contro.
Le filosofie orientali e olistiche insegnano a non
ingaggiare una lotta contro il dolore ma accoglierlo, per rendere più dolce il
vivere la malattia. Io ci ho provato, ma alla fine mi sono stancata anche di
questo perché non si tratta di un dolore con un fine come quello del parto: un dolore da
accogliere e coccolare perché ti porterà in dono un bambino tra le
braccia e un amore tutto tuo. No. Quando
una malattia ti assale con tutta la sua forza, la fine del tunnel non la vedi. Ogni tanto
trovi un anfratto dove riposare, una piccola, fragile, inconsistente oasi di
benessere: un’iniezione benedetta e una pillola che ti permettono di dormire,
di respirare qualche ora, di
dimenticarti per un brevissimo lasso di tempo che sei soltanto tu il prescelto
per una prova di coraggio che non interessa a nessuno. Poi tutto ritorna esattamente come prima i dolori, la tristezza, la paura di non farcela. E il
tunnel in cui sei costretto a camminare si allunga per chilometri al buio. Procedi verso il basso come in miniera e di
galleria in galleria, incespichi, piangi, ti disperi, perdi la nozione del
tempo e precipiti sempre più vorticosamente nel pozzo profondo del dolore da dove
non sai se una mano un giorno ti salverà restituendoti il dono della luce e la
pace.
A volte, in quel pozzo, ti sforzi di guardare meglio, di
capire a cosa andrai incontro, ed ecco le domande: come sarà la mia vita? Ne uscirò? Per quanto tempo le persone che
amo e mi amano riusciranno a sopportare il mio peso? Potrò ancora donarmi alla vita, essere generosa e accogliente? Potrò ancora scherzare e ridere? Potrò nuovamente camminare in un bosco, andare in palestra, nuotare nel mare? Ma non è tutto.
Quando si soffre davvero non esistono più desideri,
se non quello di guarire. Non esistono voglie, se non quella di alzarsi dal
divano o dal letto senza dover piangere dal male. Il cervello perde lucidità e gli orizzonti si fanno piccolissimi. La vita, quando sei schiavo di
una malattia è un insieme di momenti, frammenti, secondi di benessere chimico
destinati a svanire quando finisce l'effetto. L’esistenza del
malato si riduce all’essenziale, a quei piccoli passi che molto spesso lo
obbligano a stupidi giri in tondo. Il dolore, quando è serio, non è mai lineare, non
contempla un percorso prestabilito, un apice e poi un ritorno fino alla remissione.
Il dolore, quando è serio è stronzo, circolare, puntuale, preciso, inesorabile.
E tu, ridotto a poco più di una larva, non coltivi alcuna ambizione se non quella
di stare bene o se non bene (che ad un certo punto pare persino esagerato)
almeno un po' meglio.
Se sei una
donna non ci sono più specchi, parrucchieri, cosmetici, trucco, vestiti, sesso,
seduzione. Esistono solo desideri microscopici che si traducono in un solo, unico sogno: dieci minuti privi di dolore. Nel frattempo invecchi velocemente e male di dieci, venti, trenta anni. E
piangi un po’ per tutto. Per come ti sei ridotta, per quanto sei sfigata. Le lacrime sono sempre lì, in agguato, pronte a
sgorgare al primo saluto sincero, al “Come stai?” di un vicino di casa o quando
inaspettata ti arriva la carezza o l’abbraccio di un figlio che ti si accosta
per farti sapere, con tutta la delicatezza del mondo perchè teme di farti male, quanto ti vuole bene.
Lo so che sembra strano, ma quando stai male anche l’amore che ricevi
fa male. Ogni gesto carino ti trapana il cuore e ti sembra immeritato perché da
qualche parte nel tuo cervello c’è un pensiero nascosto che ti uccide più del
male fisico: l’idea di non essere degno di quell’amore brillante e puro come un
diamante perché sei diventato inutile, pesante, penoso, irrilevante. Sdraiato sul divano o sul letto osservi il via vai di casa tua, quelle vite che vanno,
vengono, organizzano, progettano, vivono. E’ un crocevia stupendo dal quale, ti piaccia
o no, ne sei escluso.
Per non concentrarti solo su te stesso e non piangerti addosso
inizi a guardarti intorno per ricordarti della realtà e del fatto che c’è sempre
chi sta peggio. Di solito è un balsamo leggero. Allevia per poco perché la
natura e l’istinto di sopravvivenza ti ricordano continuamente il “tuo”
problema, ma fa bene all’anima.
Io ho la fortuna di soffrire da quasi un anno per un male odioso
ma curabile, non riesco a immaginare cosa possa essere la sofferenza per
qualcosa di incurabile. In questi mesi ho pensato molto ad una mia amata zia
che dopo tanta sofferenza per un tumore senza via d'uscita ha scelto di farsi ricoverare in un Hospice, luogo
compassionevole dove la morte senza dolore è garantita anche a chi non può
permettersi l’eutanasia in una clinica svizzera. Ricordo che i primi giorni mi
guardava negli occhi spaventata e con un filo di voce mi diceva: “sto morendo”.
Poi, col passare del tempo e grazie alle cure dei medici, i dolori erano diminuiti e aveva ricominciato a sorridere e fare brevi passeggiate nel corridoio pur
consapevole della fine. Parlavamo della morte e mi prometteva protezione da
quel luogo imprecisato e vago che l’aspettava, di cui non sapevamo nulla. Riusciva a parlare, riflettere,
ragionare, donare amore e persino ridere perché il dolore fisico, quello che
annienta ogni volontà e annulla i pensieri togliendo energia,
l’aveva abbandonata grazie alle pietose terapie farmacologiche che le hanno poi permesso di spegnersi, comunque sola e persa nei suoi sogni, ma senza soffrire.
A luglio, quando mi hanno operata alla fine di un percorso di dolori crescenti ed insostenibili, c’era in stanza con me una signora di circa 70 anni completamente immobilizzata. Era ruzzolata malamente mentre innaffiava l’orto del figlio. Aveva alcune vertebre fratturate ed era impossibilitata a muovere gambe, braccia, testa. Era lì, in un letto gonfiato ad aria per evitarle le piaghe da decubito, costretta a farsi lavare, imboccare e chiedere all’uno e all’altro un sorso d’acqua, un frutto, una grattatina sul naso.
Il figlio, vedendomi in condizioni migliori della madre anche se ero appena uscita dalla sala operatoria, mi ha chiesto se durante la notte potevo suonare per sua mamma il campanello delle infermiere in caso avesse avuto bisogno. Sentendomi molto più in forze di lei ho detto si. Accanto a quella donna devastata e sofferente ho avuto l'opportunità di dare un’immagine al “c’è chi sta peggio”, concetto sempre ribadito da chi vuol consolarti e lo fa in maniera grossolana. Rispetto a lei mi sono sentita fortunata perchè a poche ore dall'intervento, anche se con dolore, riuscivo ad alzarmi, andare in bagno, mangiare senza aiuti e fare pochi passi nella stanza. Era la mia prima notte post chirurgica. Una notte che ho passato a chiamare le infermiere per quella sconosciuta: una donna inquieta ed esigente che ogni dieci minuti aveva bisogno di qualcosa. Nella sua assurdità e mancanza di rispetto mio e delle infermiere, accecata com'era solo e soltanto dal suo dolore, mi ha comunque ricordato che si poteva stare peggio di come stavo io. Mi sono sentita sollevata, ma solo fino al ritorno a casa, quando la ricaduta inaspettata nei dolori di sempre mi ha riportata a me stessa e all’inevitabile lotta senza tregua contro il male fisico. Una lotta da poveri cristi che ti toglie energie per qualunque cosa e diventi un morto vivente in balia delle tue maledette algie.
Un amico che cura secondo metodologie non convenzionali, di
fronte ai miei primi dolori mi aveva consigliato: parla con la tua schiena, falle
capire che hai capito il messaggio, che sai perché ti è uscita l’ernia del
disco e ora sei pronta a guarire. Io le ho parlato seriamente, con impegno, ma non è successo niente. Solo oppiacei e morfina mi hanno
regalato un po’ di sollievo insieme a tanta, odiosissima, sonnolenza. Dato che quando si sta male le persone come me si colpevolizzano, ho iniziato a sentirmi smarrita, a pensare di non essere in sintonia col mio
corpo, di non sapere gestire ciò che mi accade a livello fisico e giù massacri
mentali. Intanto il dolore aveva sempre la meglio. Desideri annullati. Vita
rimandata. Progetti inesistenti e tante, tantissime lacrime. Pianti spossanti e disperati. A me alla fine, quando sto tanto, tanto male, riesce solo di piangere. Non lo decido e non lo vorrei. Succede. E’ l'unico espediente che
la mia mente riesce a partorire per reagire all’assurdità di una situazione che secondo logica, statistiche, medici e sentito dire: “avrebbe dovuto
terminare da tempo”.
Tornando alla solitudine del malato devo dire che è
inesorabile quanto inevitabile. Puoi provare a pregare, accendere candele,
recitare mantra, ma quando lo fai capisci che nessuno ti ascolta. Puoi
rivolgerti a tua zia (quella che ti ha promesso protezione), puoi provare a scomodare
con lei gli dei dell'Olimpo e tutte le persone che hai amato e che non ci sono più, ma niente. Sei condannato a giocare a scacchi coi tuoi guai. Nessun
miracolo ti salva. Sei solo con il tuo dolore. Stop. E te la devi cavare come
puoi, con le risorse e la forza che hai perché nessuno, anche la persona più devota e
innamorata potrà farlo per te.
Siamo soli in questo universo. Soli nella malattia. Soli nella sofferenza. Soli nella morte. In questa solitudine ci sentiamo piccoli, piccoli
perché la fragilità prende il sopravvento.
In conclusione non so se siamo spirito e anima, di sicuro
siamo nervi, muscoli, tendini, ossa, organi e chimica in balìa del caso.
Prima lo
capiamo, meglio è.